LIFT
Le immagini proposte sono parte di un progetto più ampio che mira a raccontare la società nipponica di Tokyo nella sua surrealtà, nei suoi contrasti, nelle sue forze. La folla urbana e la solitudine che intrinsecamente la contraddistingue sono tra gli elementi portanti e ricorrenti del progetto. Si tratta di una moltitudine di persone che condividono un istante della loro quotidianità per poi lasciarsi e disperdersi nel paesaggio urbano.
L’ascensore così acquisisce simbolicamente la connotazione di un non-luogo, dove le persone vanno e vengono, condividono un breve lasso di tempo adattandosi alle esigenze dello spazio. Nella cabina dell’ascensore transitano e si raccolgono quotidianamente una moltitudine di persone molto diverse fra loro per età, cultura, etnia, religione, vissuto. L’apertura delle porte ci offre delle istantanee autentiche sui singoli individui e sulla moltitudine stessa, cogliendo le differenti reazioni. C’è chi sbadiglia, chi chiude gli occhi, chi si mette in posa e chi si nasconde. C’è chi non si è neppure accorto della tua presenza o chi è pronto a farti le smorfie. L’ascensore svolge il proprio lavoro; senza pregiudizi accoglie chiunque al suo interno.
ALONE
La presenza della folla che noi cittadini consideriamo consueta, l’ha resa da tempo così abituale al nostro sguardo da spiazzarci totalmente quando questa non affolla i luoghi del nostro abitare. Il fascino sottilmente inquietate che Mimmi Moretti conferisce alla sua ricerca “Alone” sta proprio in questo cambio di prospettiva: se, infatti, immaginare di rimanere da soli è un esercizio mentale presente in molti racconti, quando questo acquista la concretezza delle fotografie, tutto cambia e a noi che le osserviamo, ci facciamo attraversare da mille domande. Come fa quel minuscolo uomo, quasi schiacciato dall’imponente struttura di scale che salgono verso il nulla, a controllare un traffico inesistente con gli occhi che immaginiamo fissi su strisce pedonali su cui non cammina nessuno? Chi sono quelle persone che si aggirano là in alto dove non ci sono tetti ma terrazzi, strutture tubolari, cantieri? Se il pavimento, le pareti e perfino il muro cui la donna si appoggia sono completamente ricoperti di piastrelle, la sensazione è quella di trovarsi all’interno di uno spazio ossessionante: forse questa è la ragione per cui l’unica consolazione diventa la voce dell’interlocutore che ha risposto al telefono. Svuotati degli “altri”, gli spazi somigliano sinistramente a labirinti hescheriani dove le scale mobili non si sa verso dove si dirigono mentre certi percorsi che si estendono a zig-zag sembrano più ostacolare che favorire l’uscita. Ma poi, una volta fuori, le singole figure che il fotografo accompagna con il suo obiettivo si trovano ancora una volta in un vuoto spiazzante che di giorno si apre sul nulla. Ma di notte l’atmosfera cambia e il buio viene bucato dalla luce ronzante di una vetrina che nessuno guarda anche se serve a un uomo che gli si è avvicinato a rischiarare lo schermo del telefonino. È un modo come un altro per sentirsi meno soli.
STRIPS
La quotidianità è fatta di mille aspetti di cui non ci si accorge perché si danno per scontati, di importanti visioni che a stento si considerano, di particolari che restano nella coda dell’occhio e non riescono quasi mai ad arrivare al centro della scena. Se però la realtà la guarda un fotografo come Mimmi Moretti tutto cambia perché per lui il passaggio dal guardare all’osservare è, prima ancora che una scelta, un inevitabile atteggiamento mentale.
Ed è così che ci conduce a scoprire la dimensione urbana da un particolarissimo angolo di visuale, quello del taglio geometrico rappresentato dalla presenza costante delle strisce pedonali. Le si vedono mentre sono calpestate di corsa, quando qualcuno vi si sofferma in attesa o mentre, deserte, sono attraversate da una tagliente lama di luce. Oppure ancora, le si possono osservare dall’alto mentre sono disposte in modo da incrociarsi fino a creare un triangolo. Ben presto ci si rende conto che le immagini non sottolineano più la vera ragione per cui sono state create, quella di proteggere i pedoni, ma acquistano una nuova e strana autonomia compositiva ed espressiva.
Le immagini proposte sono parte di un progetto più ampio che mira a raccontare la società nipponica di Tokyo nella sua surrealtà, nei suoi contrasti, nelle sue forze. La folla urbana e la solitudine che intrinsecamente la contraddistingue sono tra gli elementi portanti e ricorrenti del progetto. Si tratta di una moltitudine di persone che condividono un istante della loro quotidianità per poi lasciarsi e disperdersi nel paesaggio urbano.
L’ascensore così acquisisce simbolicamente la connotazione di un non-luogo, dove le persone vanno e vengono, condividono un breve lasso di tempo adattandosi alle esigenze dello spazio. Nella cabina dell’ascensore transitano e si raccolgono quotidianamente una moltitudine di persone molto diverse fra loro per età, cultura, etnia, religione, vissuto. L’apertura delle porte ci offre delle istantanee autentiche sui singoli individui e sulla moltitudine stessa, cogliendo le differenti reazioni. C’è chi sbadiglia, chi chiude gli occhi, chi si mette in posa e chi si nasconde. C’è chi non si è neppure accorto della tua presenza o chi è pronto a farti le smorfie. L’ascensore svolge il proprio lavoro; senza pregiudizi accoglie chiunque al suo interno.
ALONE
La presenza della folla che noi cittadini consideriamo consueta, l’ha resa da tempo così abituale al nostro sguardo da spiazzarci totalmente quando questa non affolla i luoghi del nostro abitare. Il fascino sottilmente inquietate che Mimmi Moretti conferisce alla sua ricerca “Alone” sta proprio in questo cambio di prospettiva: se, infatti, immaginare di rimanere da soli è un esercizio mentale presente in molti racconti, quando questo acquista la concretezza delle fotografie, tutto cambia e a noi che le osserviamo, ci facciamo attraversare da mille domande. Come fa quel minuscolo uomo, quasi schiacciato dall’imponente struttura di scale che salgono verso il nulla, a controllare un traffico inesistente con gli occhi che immaginiamo fissi su strisce pedonali su cui non cammina nessuno? Chi sono quelle persone che si aggirano là in alto dove non ci sono tetti ma terrazzi, strutture tubolari, cantieri? Se il pavimento, le pareti e perfino il muro cui la donna si appoggia sono completamente ricoperti di piastrelle, la sensazione è quella di trovarsi all’interno di uno spazio ossessionante: forse questa è la ragione per cui l’unica consolazione diventa la voce dell’interlocutore che ha risposto al telefono. Svuotati degli “altri”, gli spazi somigliano sinistramente a labirinti hescheriani dove le scale mobili non si sa verso dove si dirigono mentre certi percorsi che si estendono a zig-zag sembrano più ostacolare che favorire l’uscita. Ma poi, una volta fuori, le singole figure che il fotografo accompagna con il suo obiettivo si trovano ancora una volta in un vuoto spiazzante che di giorno si apre sul nulla. Ma di notte l’atmosfera cambia e il buio viene bucato dalla luce ronzante di una vetrina che nessuno guarda anche se serve a un uomo che gli si è avvicinato a rischiarare lo schermo del telefonino. È un modo come un altro per sentirsi meno soli.
STRIPS
La quotidianità è fatta di mille aspetti di cui non ci si accorge perché si danno per scontati, di importanti visioni che a stento si considerano, di particolari che restano nella coda dell’occhio e non riescono quasi mai ad arrivare al centro della scena. Se però la realtà la guarda un fotografo come Mimmi Moretti tutto cambia perché per lui il passaggio dal guardare all’osservare è, prima ancora che una scelta, un inevitabile atteggiamento mentale.
Ed è così che ci conduce a scoprire la dimensione urbana da un particolarissimo angolo di visuale, quello del taglio geometrico rappresentato dalla presenza costante delle strisce pedonali. Le si vedono mentre sono calpestate di corsa, quando qualcuno vi si sofferma in attesa o mentre, deserte, sono attraversate da una tagliente lama di luce. Oppure ancora, le si possono osservare dall’alto mentre sono disposte in modo da incrociarsi fino a creare un triangolo. Ben presto ci si rende conto che le immagini non sottolineano più la vera ragione per cui sono state create, quella di proteggere i pedoni, ma acquistano una nuova e strana autonomia compositiva ed espressiva.